Al di qua della Statale 515



In un contesto a dir poco bucolico, (campi di pannocchie a Santa Maria di Sala) poco più in qua dalla strada intasata costantemente da TIR e guidatori d’ogni genere, lasciatevi prendere per mano da questi pensieri sconnessi.
Ho voluto fondere brani musicali particolarmente stimolanti al mio subconscio con opinioni che mi
abitano dentro da anni, ed è uscito questo flusso di descrizioni bizzarre che dovrebbero coniugarsi in una sorta di concept artistico.
Per trovare un senso a tutto ciò (ognuno troverà il suo) è essenziale durante la lettura ascoltare il brano indicato e lasciarsi trasportare dalle sue note.
Data di produzione: incerta tra 2009/2010
Data di scadenza: Lunga conservazione
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Spesso accadeva che Phil si sentisse puntare una pistola alla tempia, era la noia assassina che lo minacciava, che lo spaventava, che lo costringeva a scappare, a lanciarsi nella via della solitudine e imboccare quei secchi sentieri di campagna che sembrano tanto dei mondi a sé stanti, così lontani dalla realtà, da quella realtà piena di parole, colma di merda, satura di frivoli bisogni materiali.
Vagava qua e là lasciandosi guidare da schiamazzi lontani, allontanandosi da quelle voci di animali sociali ben addestrati per scegliere fra tutti i campi limitrofi quello con le spighe di grano più morbide e lucenti che potessero così ammortizzare la sua caduta verso il basso, verso quel burrone di tentazione e peccato e si lasciò cadere all’indietro invitando nel suo tuffo anche il fantasma di  Milton e recitando un “ meglio regnare all’inferno che servire in paradiso”.
Per prepararsi al viaggio mise sotto la lingua un francobollo acido e dentro le orecchie una sequenza di canzoni da lui scelte.

Pink Floyd – Shine On You Crazy Diamond

 “Guardate dove è finito Phil!”- fece un piccolo moccioso che passeggiava mano nella mano con il  nonno in un grande parco di città.
Phil era più in alto di tutti, lì tra le stelle, come un gigantesco palloncino pieno d’elio;
Nello spazio nuotava leggero con gli occhi spalancati e con le braccia aperte, intontito dai fasci di luce psichedelici, affascinato dal sussurro della galassie;
ruotava anche lui su se stesso senza muovere gli arti come quel pianeta che gli stava davanti, era Marte il pianeta rosso, il pianeta della guerra che stava galoppando verso di lui per una romantica collisione.
I vestiti erano zuppi di sudore, erano attaccati alle pelle e la fronte grondava d’acqua e zucchero, quel bagno d’emozione e visioni facevano di Phil un simpatico biscotto pronto ad essere immerso  nella via lattea.
E quei suoni ipnotici aiutavano Phil ad abbracciare qualche timida meteora;
Toccò con un dito il puntino caldo che sapeva di stella o poi azzannò quella bianca e gustosa spumiglia che quelli del piano di sopra osano chiamare semplicemente …luna.
Tutto era così soffice, tutto così drammaticamente destinato a finire così decise di cantare un elogio alla natura, si alzò dal suolo pungente per cercare tra i sentieri qualche robusto arbusto che sapesse sciogliersi al suono di quella melodia così unica, così immortale.
Danzò con la pianta per poi sentirsi foglia leggera che precipita in una pozza di fango umido, cade e s’impregna in una melma d’insetti freschi.
Phil sono veri quei lombrichi!
Ma se li mangiò ugualmente credendo che fossero gommosi e saporiti perché il loro movimento sinuoso era così sensuale ed appetitoso da non poter resistere.
Rimase a fissare quel marrone che si muoveva tutto per parecchi minuti, finché fu nauseato dal tanfo dell’humus che gli penetrava nelle narici.
Pensò al mondo, si sentiva come un’insulsa briciola di pane sulla schiena di una formica operaia, indossò uno strettissimo costume da virus anerobico, era un girino nero, era qualsiasi cosa potesse trasformarsi ed ingrandirsi, era granello di sabbia, era polvere di stelle era tutto ciò che poteva ammassarsi e stupire, era polline giallo e leggero da sniffare e c’era da cantare...a questo proposito mi sovviene un verso di un cantastorie italiano che faceva così “dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori “; è la sentenza più vera, la legge meno vincolante, la più esatta equazione, la teoria più ingenua di questa vita, della vita di tutti coloro che non sentono di assomigliare agli altri, che non sentono parentela alcuna con l’umano moralista e perbenista.

Pain Of Salvation - Imago

Cominciarono ad amalgamarsi nelle sua orecchie atmosfere nordiche, un direttore d’orchestra onnipotente come un cucchiaio mescolava gli ingredienti, addolciva il tutto con una neve normanna, con il suo passino di bronzo lasciava passare solo i fiocchi più piccoli che s’andavano a depositare sul suolo da fecondare.
 E poi la voce di un uomo che cominciò a guidarlo alla scoperta dei misteri della creazione…
- Spostati più in là oltre quell’albero e varca la porta che non esiste! -  gli ordinò quella voce.
E fece proprio così, entrò in un mondo primitivo, vergine che sapeva da menta, verde ovunque, Phil sembrava non esistere più, era solamente un microbo nell’universo, attorno a lui fiumi che parevano mari, alberi che parevano grattacieli, così salì in groppa ad una lucertola e cominciò a galoppare al ritmo forsennato dei tamburi.
Un’esplosione di luce e tamburi, poi un clarinetto che come un pennello disegnava e ritagliava i limiti d’ogni cosa, dall’animale al vegetale, dalla roccia alla montagna tutto prendeva vita, tutto respirava per la prima volta, vittima dell’ape regina che punge e da vita, dal suo pungiglione usciva linfa, energia, palpiti macchiati di miele.
Un essere indefinibile con un berretto da elfo suonava il banjo e con il suono magico smussava e limava le imperfezioni lasciate dal clarinetto, cantando quel pongo primordiale che si stava plasmando.
“Portami nella foresta, dammi un albero, insegnami a scalarlo,
Portami al mare, dammi un oceano per sparire in silenzio, insegnami ad affogare per respirare”.
Il vento ghiacciato lo accecava, ma lo aiutava a decollare con il suo destriero dalla pelle umida e fredda che cercava un posto al sole per caricare d’energia i suoi tessuti.
Correvano veloci con il vento che soffiava da dietro, correvano e schivavano radici, rami che spuntavano da terra, dal cielo, foglie che si aprivano improvvise fino a che non uscirono da quella foresta animata.
Giunsero su un grande masso, Phil lasciò il rettile che come una statua si abbandonò alle lusinghe del sole bollente, di quella palla di fuoco incandescente appena partorita dalla madre gravida. 

Pain Of Salvation – Pluvius Aestivus

Phil andò ad abbeverarsi a quattro zampe in un rigagnolo d’acqua formatosi da uno zampillo che sgorgava dal suolo e s’incuneava tra le rocce; cercò di specchiarsi nella trasparenza ma non vi ci riuscì, quando ad un tratto la fiamma del sole, venne spenta da una ventata di libeccio, qualche goccia bagnò la fronte di Phil, cominciò a piovere ed era pioggia primordiale.
Pezzetti di ghiaccio cominciarono a cadere, pungenti, Phil trovò riparo sotto una foglia di girasole, se ne stette lì ad ascoltare quel concerto bagnato che prendeva fiducia, che saliva di toni, fino ad alzarsi e trasformarsi in una pioggia estiva, leggera, morbida, calda e si addormentò pensando di essere lui pure un pianoforte da massaggiare, da coccolare morbidamente da quelle due mani d’artista che stavano eseguendo e descrivendo perfettamente le gocce che cadevano dall’alto.
La foglia su cui stava pisolando si staccò dallo stelo e si adagiò sull’acqua di quel rio sempre più grasso; la corrente trascinò via Phil e la sua zattera, insieme ai suoi sogni, ai suoni, all’acido, la foglia pattinava come una ballerina russa fino a sparire zigzagando in lontananza.


Pain Of Salvation – Iter Impius

Phil sentì di nuovo quella voce, che come una mano sulla nuca gli accarezzò quei capelli unti di fango;
Si stropicciò gli occhi, si tastò le occhiaie, si svegliò con candide sviolinate di poesia.
Ma dietro a quel violino bianco, si mascheravano avvoltoi con il becco ancora sporco di sangue che volavano verso di lui per svelargli cosa sarebbe successo da li a poco.
Ed ecco che la voce comincia a gridare, scoppia la tempesta, si scatenano maremoti, uragani, tutto è tremendamente caotico, perché stava nascendo l’uomo, il prescelto essere dotato di intelligenza superiore, il più complesso dei  parassiti, il più “sveglio” di tutti, colui che tenderà a coprirsi i genitali con mutande new age e a rubacchiare la frutta dagli alberi.
Phil cominciò a scappare, a correre, ma era in balia del vento, di quella voce che gridava Rovina, che gridava Solitudine e Conflitto e poi venne colpito da una clava e stordito si spense sotto delle sugose fragoline di bosco.
Un gruppo di ominidi pelosi ululavano alla luna incomprensibili codici per festeggiare la cena della sera; fissavano Phil che aveva ripreso le sue dimensioni umane ma non la ragione e la forza per liberarsi dai denti aguzzi di quei cannibali.
Gli azzannarono un avambraccio, poi perse i sensi ma arrivò dalla storia un aiuto…

Pain Of Salvation – Martius Nauticus

Cavalieri a cavallo, armanti di corazza e spada si presero cura del povero e sanguinante Phil, salvandolo dall’apparato digestivo dell’Homo Erectus e la loro impresa fu accompagnata dal clavicembalo che celebrava l’ingresso della carrozza nel castello medievale.
Cantastorie e menestrelli impiccioni, damigelle curiose e scabri contadini erano ansiosi di vedere lo Straniero che entrava a corte, venne in seguito accudito e custodito come un diamante prezioso.
Si presero cura di lui dei giovani maghi apprendisti alla Prova del Mago, uno dei corsi di magia più diffusi dell’epoca tenuti da Mago Merlino, e con erbe e rituali sciamanici curarono le ferite dell’uomo e dell’umanità intera: Phil rappresentava in quel momento una sorta di tesoro da salvaguardare, un testimone da lasciare ai posteri come prova di fedeltà, onestà, lealtà e devozione verso qualcuno che siede lassù oltre le nubi che a seconda della latitudine assume diversi travestimenti..era così la gente dell’epoca ,così puzzolente, malata di guerra, animata da mistiche convinzioni.
Il parassita si stava così evolvendo, stava così formando gruppi sociali, con ideali, credenze, un dio.
Phil lasciò a cavallo quella fortezza e passeggiando nuovamente in quei campi di grano vide spaventapasseri che li ricordarono grandi profeti, grandi corrotti, grandi uomini di polistirolo, e passava in rassegna tutte quelle epoche così buie, così spente, così malsane, dove il pepe e le crociate erano gli interessi principali degli uomini che vi regnavano.



Pachelbel - Canon

“Voglio andare oltre” pensò Phil;
Così parcheggiò il cavallo a Vienna davanti al teatro della città per assistere ad un’opera classica, perché quello era uno dei suoi sogni più grandi, entrare con quei buffi vestiti in quegli ambienti così alti, così densi di cultura, così “profumati” di aristocrazia.
Per prima cosa dovette procurarsi una bianca criniera di boccoli con pidocchi come usanza richiedeva e togliersi quelle calzamaglia che facevano troppo vintage.
Si sedette e l’opera iniziò, era il Canon di Pachelbel ed era magnifico, era poesia sinuosa che si muoveva che muoveva tutti i sensi, che ti stimolava…chiuse gli occhi e anche il naso per non sentire l’olezzo del vicino borghese e si immaginò in un prato verde d’Irlanda e rotolarsi innocente come un cucciolo, era il manifesto totale della libertà animale, era l’emblema dorato della spensieratezza, aveva una tremenda voglia di montare tutti i pezzi per costruire un corpo femminile che apprezzasse il fatto di danzare con lui, aveva voglia di disegnare con passi felpati cerchi e triangoli su un pavimento di marmo decorato.
Ma ecco l’atroce risveglio, un cane da caccia cominciò a leccarli la faccia, e la bava densa e oleosa gli fece ribrezzo.
Il contadino armato di fucile teneva sulla cinta un fagiano mezzo spappolato, Phil schifato si alzò e se ne andò ciondolandosi tra quelle pannocchie ormai mature per ritornarsene nella sua dimora.

Giovanni Allevi – Back To Life

Calpestava quella terra arida e secca in modo pesante e quasi violento, voleva restare ancora a rotolarsi in Irlanda con il vento che pettinava quell’erba così verde, così profumata, amava l’odore della linfa e quella campagna sterile non faceva proprio al caso suo.
Nelle case vicine suonava un pianoforte, sicuramente un principiante che esitava, che sbagliava, che tintinnava a lasciarsi andare come la maggior parte della gente nella vita di tutti i giorni, ma era una melodia che sapeva corteggiare Phil, era musica classica e perciò musica che fa inchinare un uomo, la musica con la M maiuscola.
Poteva vedere sebbene distante da quel casolare quei tasti bianchi e neri che si amalgamavano finalmente senza errori, legando così tutte le note di una canzone, si classica ma sicuramente moderna poiché opera di un timido giovane bohemièn;
Una di quelle canzoni che i giovani non ascoltano, quelle canzoni che vengono messe nel dimenticatoio sociale e che solo qualche attento artista spesso le ripulisce dalla letale morsa di  ragnatele appiccicose.

The Doors – Cristal Ship

Prima di entrare in casa si tolse quelle scarpe di tela nera che sapevano di umido, di sudore, con un variopinto collage di foglie morte incollate sotto la suola, si asciugò il naso gocciolante, si cacciò in doccia per lavare gli effetti del suo trip, per sentirsi nuovo, per scrollarsi quello che è stato e che non ritornerà, perché si nasce e si muore ogni singolo giorno.
Dopo il the delle cinque si mise in salotto e decise di gustarsi qualche LP della sua collezione.
Sentì come di consueto quel soffice suono elastico della pre-traccia del vecchio giradischi e poi inziò quella canzone che tanto gli faceva provocare immediata pelle d’oca.
Quella voce calda che ti percorre tutto, che ti scuote, che ti bagna di salso, era come solcare la vita con una fragile nave di cristallo, allora attenti alle onde minacciose, attenti agli iceberg, attenti alle burrasche voi sciagurati umani, attenzione alla vostra delicata nave che potrà spezzarsi da un momento all’altro, il mare può essere esclusivamente il miglior amico dell’uomo o il peggiore.
Il re Lucertola era il più bravo di tutti i pazze geni dell’America del passato ad arrivare nel profondo di Phil per fargli varcare la porta della percezione e così andò oltre il confine, varcò quella soglia.

The Beatles – Something in Way She Moves

Ed entrò nei 70’s, negli anni della protesta, del sex drugs and rock’n’roll, dei movimenti giovanili, lì dove la musica era mezzo di ribellione, provocazione, dove la musica urlava rabbiosa la sua creatività, dove l’arte era prima di qualsiasi cosa, dove i veri bisogni erano altri.
Ma abbandonano per un attimo le atmosfere mistiche dei Doors, Phil si tuffò nelle love songs dei Fab4 di Liverpool perché era si un artista ma anche un dannato romantico.
Fuori il tempo ruggiva e lui pensava a lei, a quella ragazza che tanto amava, che tanto lo sapeva prendere, in tutti i suoi modi di fare, in tutte le sue gesta, era una lei che spesso cambiava colore dei capelli, taglia di seno, nome, identità erano tutte e nessuna, insomma lei.
Sapeva riconoscere anche nella donna come nell’opera d’arte quella forza magnetica che lo scuoteva, che lo faceva sciogliere come la zolletta di zucchero in un mare di pesca bollente,  lentamente.
Era tornato in sé dopo una passeggiata con l’amata creatura con le lentiggini e gli occhi chiari, o con la pelle bianca e gli occhi neri, s’era così tolto lo sfizio di assaggiare le sue labbra e tastare i suoi fianchi.

Rolling Stones – Angie

Prese la chitarra acustica dal colore elettrico e come un comico poco serio si mise a strimpellare e ad intonare una della canzoni più fottutamente d’amore che siano mai state scritte.
Ma a che si voleva rivolgere Phil? A chi delle innumerevoli amanti?
A quella che chiamava Honey ?; oppure Tresor?  dato che masticava il francese come i giovani d’oggi fanno con le gomme all’eucalipto, alla stella alpina, al bruscandolo muschiato e tanti altri aromi che mi rifiuto d’inventare.
Canticchiò il ritornello, mugugnando il resto, le pennate con il plettro erano lievi ed indecise e maledì quei corsi di chitarra che troppo spesso iniziava e purtroppo sempre abbandonava.
E così Mick Jagger intervenne spostando le acque morenti di quel laghetto stonato, la canzone iniziò da capo, era puro rock, che rotolava, malinconico, addolorato fino a calarsi nelle sabbie mobili del ricordo, e Phil cercava qualche appiglio per respirare, per non sprofondare nel senso di un passato sfortunatamente unico, ma l’uomo in sé deve saper sopprimere l’ansia prima che l’ansia  riesca a soffocarlo e così qualche boccata d’oppio si rivelò il rimedio più immediato per tornare a respirare, per prosciugare quel pozzo d’inverno che lo stava nuovamente risucchiando.
Morì un po’ ...nel sonno per sfuggire all’eleganza, al calore e al fascino della comoda tristezza.

Eddie Vedder - Society

La tristezza è in effetti un morbido vestito di lana che molti non indugiano ad indossare specie nella stagioni fredde, quando il buio cala precoce portandosi spruzzi di nebbia che come zucchero a velo rimane sospeso nell’aria.
La tristezza e la solitudine, accoglienti rifugi per gli abitanti di campagna, magari appassionati di Pascoli...oddio anche se è veramente difficile apprezzare Pascoli perchè era veramente da ricovero!
Ah la tristezza, il più grande degli alibi, la più facile delle giustificazioni, lo stato d’animo più usato e consumato da queste generazioni irrispettose che hanno reso alla moda questo mare agitato nel quale Leopardi amava naufragare.
Ma la tristezza di Phil era di diversa natura, era come un disastro che periodicamente passa nella tua dimora per estorcere energia, per aprire in due il torace e arrivare proprio nel cuore delle vere sensazioni, in fondo c’è un po’ di Phil in ognuno di noi.
Noi diversi nel modo di approcciarsi, noi diversi per le sfumature del nostro “essere” e non del nostro “fare”, noi alla ricerca continua di vitale sensazione per dare un senso a questi giorni che si susseguono repentini nel calendario, noi ansiosi di novità, affamati di vedere anche solamente un una nuova cornice dello stesso film perché per i romantici lo sfondo è essenziale, anzi quasi tutto.
E allora ditemi se anche voi non ammirate Philippe?!
Ditemi se anche voi non invidiate la sua infanzia?!
Ditemi se non vi sarebbe piaciuto essere a braccetto con Phil in quei suoi pomeriggi ribelli a passeggiare nei prati umidi della Provenza, ed imitare quei fenicotteri rosa che stanno in piedi su una sola zampa senza uso di sostanze mescaline o allucinogene?
Società..con il tuo pazzo generare, spero che non ti sentirai sola senza di me.

Coldplay – Clocks

E allora eccoci giunti ai nostri giorni, dove la musica è business, ma qualcosa si salva, qualcosa che s’intreccia con una sfrenata ricerca armonica e con uno sperimentalismo fonico per il raggiungimento della sensazione psichedelica.
Cioè di quella dimensione dove i sensi si incontrano, dove ci si abbandona al suono, dove i palpiti dentro di te si fanno più rapidi e confusi, dove vuoi intenzionalmente lasciarti alle spalle la giornata appena passata, per librarti in un fiume fresco, per pulirti, per purificarti, per lasciarti trasportare dal voce, dalla velocità del suono.
Ho sempre pensato fermamente che le canzoni siano come le stelle, cioè che siano di tutti e di nessuno, e che ognuno di noi le possa associare ad un particolare pezzo della propria vita che potrà essere gustato come un torroncino alle mandorle se piacevole o come un potente whisky torbato se scomodo.
Ma ogni cosa bella o brutta ce la portiamo dentro e non possiamo cancellarla o far finta che non sia mai passata per la nostra via, sta a noi ricacciarla in basso ogni qualvolta tenti di risalire in superficie.
Meglio perciò lasciarsi cullare dalle forti emozioni, meglio lasciarsi ciondolare dall’altalena della creatività, su e giù per creare e disfare nuovi amori, per strappare scene fantastiche dai tramonti, per vedere anche in una goccia di rugiada dei mondi nuovi, nuotarci dentro e commuoversi perché in fondo cos’altro può essere più vincente, più assoluto, più autentico dell’essere dei dannati sognatori romantici?
E quando tutto è piatto, maledettamente monotono ecco che per esplodere è necessario accendere la miccia, esploriamo il cielo della malinconia alla ricerca di una stella e di una scintilla che ci faccia sentire qualcosa.
Cosa ci resta in questa ultranoia se non il sogno?!



Flogging Molly – Float

E allora ecco che il Phil che c’è in me molto spesso prende vita...non vi succede mai di prendere la macchina e raggiungere una spiaggia per passeggiare, per godervi un momento esclusivo con la natura nel quale tutto ciò che avete dentro piange e si aggiunge al mare?
Mentre il vento spettina ulteriormente la chioma da scapigliato, uno sguardo fisso nell’orizzonte si perde e nella testa i sogni litigano e bisticciano fra loro.
Siamo così altamente complicati, insaziabili, insoddisfatti, ma il segreto e non accontentarsi mai, cercare di andare oltre il confine, essere convinti che c’è sempre qualcosa di diverso oltre a quello che già conosciamo, che già sappiamo.
E così questa canzone con le lentiggini e l’accento marcatamente irlandese, rappresenta colui che viaggia, e non si ferma mai, che ha bisogno delle proprie virtù come dei propri vizi per sfidare gli ostacoli; è un gene indomabile, senza guinzaglio, che caccia, che strappa brandelli di polpa alla carcassa della vita.
La percorsi tutta quella spiaggia dall’orrendo nome, perché la amo, perché amo il mare, perché amo il mare d’inverno, perché amo il mare in tempesta.
Sovrastato da ventate di pura libertà passeggiavo sul bagnasciuga riordinando la mente, ascoltando il mare, con uno zaino in spalla e nient’altro.
E in quella fisarmonica  triste, in quelle note macchiate di malinconia sparivo anch’io in lontananza, lasciando anche se per pochi secondi le mie orme, le mie tracce, degli indizi che esisto, che sono esistito, che per quel poco ho schiaffeggiato il tempo, ammaestrato il vento, ferito il mondo, prima di essere definitivamente divorato dal mare con le sue onde affamate.


 Non lasciatevi abbattere dalla razionalità, non lasciate che qualcosa disarmi i vostri desideri di conquista, se avete un sogno sfamatelo e soprattutto non abbiate paura di sentirvi troppo piccoli,
troppo ininfluenti, ci sarà sempre qualcuno che si accorgerà delle vostre impronte.


                                                                                                                                            CINCINNATUS di una volta


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