Downshifters of the world

Dal sito dei port royal, post di mellotron che non so chi sia ma che merita una lettura:

Downshifters of the world

Passano rapidamente gli anni di questo nuovo millennio e a fronte di un’apparenza ufficiale (e cioè mediatica) sempre meno sensata, prendo atto della sola via d’uscita possibile: ridimensionare, nel nostro immaginario e nelle nostre pratiche quotidiane, il ruolo che il lavoro ha nella società. Lavoro, sia chiaro, che resterà sempre qualcosa di necessario e nobile, che in passato ci portò dalle caverne e dal gelo dell’inverno alla luna e agli appartamenti con acqua calda, riscaldamento e elettricità e che in futuro permetterà di curare ogni tipo di tumore o carenza enzimatica congenita.

Ma non può più essere tralasciato un dato: nei fatti, la vita della maggior parte di noi occidentali benestanti si è ridotta, da un lato, a un continuo agognare tempo libero e weekends che ci facciano almeno momentaneamente mettere alle spalle le ore più o meno alienate spese negli uffici, dall’altro, a un esercizio di tale tempo libero non autentico, perso per lo più nell’impossibilità di spendersi esistenzialmente in modo adeguato, in chiacchera, se non, quasi, a tratti, in una sorta di autoannullamento (per esempio televisivo?) del sé, con l’obiettivo neanche troppo nascosto di non doversi ulteriormente preoccupare.

Invece preoccuparsi dovrebbe esser l’attività centrale di un uomo libero: preoccuparsi della propria sorte nell’universo, della propria natura e storia, delle relazioni con gli altri, della società e della politica, dei significati e delle bellezze dell’arte.

E’ secondo una prospettiva esistenziale, di rinnovato benessere e rinnovata crescita personale, più che su un’altra, pur sacrosanta, di tipo ecologico (i.e. sostenibilità dello sviluppo), che bisognerebbe portare avanti la battaglia culturale per la decrescita (la nostra Costituzione dovrebbe forse affermare che la Repubblica italiana non è tanto una democrazia fondata sul lavoro, quanto sulla persona?). Come dire: meglio trascorrere interi pomeriggi vissuti nel pieno delle nostre energie fisiche e mentali insieme agli affetti più cari e le passioni più vere, piuttosto che in ufficio a cercare di piazzare prodotti che non servono a niente o districarsi in sistemi autoreferenziali lontani anni luce dalle persone.

Decrescita significa anzitutto lavorare di meno e quindi produrre e consumare di meno: drastica riduzione degli orari di lavoro (part-time come modello standard di contratto), scomparsa della pubblicità commerciale, nuove politiche della casa, razionalizzazione del modo di occupare e sfruttare spazi urbani ed extraurbani, rifondazione dell’istruzione, educazione al consumo consapevole e a un consapevole esercizio delle libertà individuali e collettive; soprattutto forse nuove politiche agricole, di distribuzione alimentare, dei trasporti e della produzione e consumo dell’energia.

Per operare in questa prospettiva si rende però necessaria un’azione politica preferibilmente mossa a livello mondiale/internazionale che, dall’alto, in qualche maniera, pianifichi questo cambio di direzione della società: ciò, da un lato, appare francamente utopico, dall’altro, rischia di risvegliare i fantasmi totalitari del recente passato. Resta il fatto che l’intoccabile dogma contemporaneo neo-liberista e (pseudo)efficientista, fondato sul rinnovato dominio globalizzato dell’iniziativa economica privata e sull’asservimento della politica alle leggi del mercato non potrà comunque non essere rivisto, corretto, forse abbattuto: processo delicatissimo, che ben potrà, tra l’altro, generare nuovi poteri (con gli inevitabili abusi collaterali).

Decrescita significa poi vivere con meno reddito e meno agi materiali. Il punto è che si dovrebbe allora preventivamente iniziare a pensare a una carta da un lato dei bisogni ineludibili, delle priorità verso cui orientare la produzione e il lavoro che residuino dopo la rinnovazione del sistema, dall’altro delle inevitabili rinunce ai tanti beni e servizi che oggi diamo per scontati, solo alcuni dei quali evidentemente dispensabili (se non dannosi).

E allora mi chiedo: di che cosa saremmo disposti a fare a meno? Pensiamo a tutto il mercato della cultura, che potrebbe opportunamente essere digitalizzato: davvero è giusto dire addio a carta rilegata, copertine, vinili, cd, pellicole, cd, dvd ecc? E che dire delle possibilità che oggi uno ha di scegliere tra tanti bei vestiti, per costruire uno stile ricercato che manifesti all’esterno alcuni aspetti del suo carattere e della sua personalità e lo distingua dagli altri? Gli esempi da fare potrebbero essere tantissimi, come ognuno può ben capire, e anche ben più significativi e probelmatici di questi…

Riusciremo a convincerci, tutti, che è più importante avere ore da dedicare magari all’ozio e alla riflessione piuttosto che collezionare libri o scarpe o viaggiare in Indonesia low cost o comprarsi un’auto con un supermotore?

E poi: come dovrebbero mai articolarsi scelte di questo tipo, chi dovrebbe farle, procedendo in che maniera? Come dovrebbe mai cominciare un tale processo? Gli scenari prospettabili tutto sommato ci appaiono auspicabili o, forse, sarebbe preferibile optare per correzioni di rotta di portata più circoscritta?

Infine: si può prescindere dall’azione politica, per fare invece affidamento su comportamenti individuali, su singole scelte esistenziali che pian piano raggiungano una massa critica tale da rendere comunque possibile un cambiamento significativo della società?

mellotron

http://www.port-royal.it/2011/05/downshifters-of-the-world/

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